I Natalin

Ci fu un tempo in cui, prima che fossero soppiantati dai ben più ricchi ravioli, i natalin (natalin in to broddo) costituivano il piatto forte della festa.

Come infatti si evince dal nome i natalin si gustavano alla vigilia o a Natale e secondo la tradizione erano ritenuti dei porta fortuna portatori di palanche (soldi in genovese).

I natalin sono dei maccheroni lisci, simili agli ziti napoletani, lunghi circa 20 cm. che vengono serviti nel brodo di cappone ed accompagnati da polpettine o bocconcini di salsiccia.

Come ricordato da un antico trallalero (canto popolare ligure) “Trallalero de l’erbo” i natalin, detti anche mostaccioli o maccaroin (maccheroni in genovese) servivano anche per decorare, insieme a fichi, arance, mandarini e frutta secca l’albero di Natale genovese. Secondo tradizione una pianta di alloro addobbata con le leccornie di cui sopra legate ai rami da nastrini bianco rossi (I colori di San Giorgio e della città).

Trallalero là là, trallalero là là.

Trallalero là là, trallalero là là

Pe fâ un’erbo a dovéi

voéi savi cöse ghe veu?

Ghe veu tanti maccaroin

Quelli lunghi, quelli fin.

Poi se ligan cö spaghetto

gianco e rosso, pe caitae,

perché questi son i colori.

I colori da çittae.

Trallalero là là, trallalero là là…

Pe fà l’èrbo ancon ciù bello

Gh’ppendemmo i mandarin, 

I çetroin, e fighe, e noxe,

I candì e i torroni.

Oua l’èrbo o l’è jaeto

Poi veddilo anche vôi

sciù ciocchaeghe un bell’applauso

Meglio ancon se na fake duì

Trallalero là là, trallalero là là…

Traduzione

Per fare un bell’albero

Sapete cosa occorre?

Occorrono tanti maccheroni

Quelli lunghi sottili.

Poi si legano col nastrino

Bianco e rosso, mi raccomando!

Perché questi sono i colori, i colori della città

Per fare l’albero ancora più bello

Vi appendiamo i mandarini

Le arance, i fichi, le noci

I canditi e i torroncini

Adesso l’albero è fatto

Potete vederlo anche voi

Sù, fategli un bell’applauso

Ancora meglio se ne fate due.

A parte qualche locale pastificio locale si tratta di un formato ormai quasi introvabile. A livello di grande distribuzione l’ultimo fornitore che li produce è il Pastificio dell’Alta Valle Scrivia.

I Maccheroni del Pastificio Alta Valle Scrivia.

Ne esistono diverse varianti: chi aggiunge al brodo di cappone le rigaglie dello stesso, i cardi, chi il brodo di trippa e la relativa centopelli in umido ma priva di pomodoro.

Nella poesia “O tondo de Natale” Nicolò Bacigalupo (1837-1904) fornisce una preziosa descrizione del pranzo natalizio delle famiglie benestanti e, a proposito dei natalini menziona infatti solo il brodo di cappone che era l’unico taglio di bollito previsto nel menù.

“Minestra: ö natalizio/ Tipico maccarön,/ Chêutto c’ûn pö de sellao,/ Ne-o broddo de cappön./ Questo ö lé de prammatica,/ Nö sae manco Natale,/ Se ûnn-a minestra uguale/ A fösse eliminâ”.

Curioso il fatto che invece di questa radicata tradizione del brodo di cappone raccontata dal poeta (fra le altre cose commediografo di Govi) l’Antica Cuciniera del Ratto del 1863 non faccia alcuna menzione. Nell’elenco delle pietanze infatti compare la ricetta dei maccheroni con trippa e del cappone non si fa cenno.

Ricetta tratta da La cuciniera genovese, con sottotitolo La Vera Maniera di cucinare alla genovese, di G.B Ratto del 1863”. L’immagine della foto è ovviamente una recente ristampa.

A proposito del brodo c’è chi utilizza quello di cappone, chi aggiunge quello di trippa, chi propone un misto con manzo e maiale, chi addirittura quello di cima, su una cosa sono tutti concordi: i maccheroni non vanno spezzati.

“A Cimma”…

Così comincia la canzone di Fabrizio De André dedicata a questo tipico piatto genovese:

Ti t’adesciâe ‘nsce l’éndegu du matinCh’á luxe a l’à ‘n pé ‘n tèra e l’átrù i màTi t’ammiâe a ou spégiu de ‘n tianinOu çé ou s’amnià a ou spegiu dâ ruzà
Ti mettiâe ou brûggu réddenu’nte ‘n cantùnChe se d’â cappa a sgûggia ‘n cuxin-a á striaA xeûa de cuntà ‘e págge che ghe sun‘A çimma a l’è za pinn-a a l’è za cûxia

Traduzione: “Ti sveglierai sull’indaco del mattino quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare ti guarderai allo specchio di un tegamino il cielo si guarderà allo specchio della rugiada metterai la scopa dritta in un angolo che se dalla cappa scivola in cucina la strega a forza di contare le paglie che ci sono la cima è già piena e già cucita…

Una pancia di vitello che cucirai (come si faceva per i materassi) .

Attenzione la sacca non deve avere venature o tagli, dopo cucita riempila d’acqua e vedi che non ci siano perdite è importantissimo. Se la pancia di vitello è integra e le cuciture valide, il problema non esiste, mi raccomando è meglio un uovo in meno che uno in più.

La pancia di vitello che cucirai (come si faceva per i materassi) lasciando un’apertura di dieci cm. dev’essere un rettangolo all’incirca di 26 x 18cm (per 5/6 uova) a volte i macellai la cuciono loro.

Preparazione: tagliare la carne a pezzetti e farla rosolare nel burro.

In una terrina mettere le uova, sbatterle (non troppo) aggiungere: la carne, la cervella ridotta a pezzetti, il formaggio grana, i pinoli, la carota a pezzetti, la lattuga, i piselli, la maggiorana (la pèrsa lègia) e l’aglio, il sale il pepe, amalgamare il tutto (se sei solito farlo assaggia).

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“A Cimma”. Foto e preparazione dell’autore.

Importante riempire la cima sino a tre quarti non di più, anzi qualcosa in meno, sennò scoppia.

Cucire la parte aperta, lavarla sotto il rubinetto e metterla in un piatto.

Mettere la cima a cuocere in una pentola (molto capiente) con acqua e sapori, (carota, sedano, cipolla) a freddo, ogni tanto girarla, appena prende il bollore spegnere e lasciare riposare cinque minuti poi riaccendere e falla cuocere a fuoco lento, (dev’esserci sempre il bollore) per almeno un’ora e mezzo o due, controllala spesso e girala, attenzione a non romperla, se vedessi che esce dalle cuciture del ripieno, niente panico, toglila dall’acqua prendi un canovaccio avvolgila e legala, poi la rimetti a cuocere.

Quando è cotta dopo almeno un’ora e tre quarti la punzecchi con un ago.

La togli dall’acqua con cautela, (vedrai sarà un pallone oblungo) la adagi su di un tagliere sul lavandino metti sopra un altro tagliere o un piatto piano (meglio un tagliere) e sopra metti dei pesi.

Io metto una pentola con acqua, oppure una pentola con dentro un mortaio di marmo, la cima si deve compattare, dentro non deve esserci più aria in modo da poterla tagliare a fette senza che si sbricioli), devi “caricare” la cima in modo che si riduca di molto e praticamente butti fuori i liquidi (pochi) e si appiattisca, per poterla poi tagliare.

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“La caratteristica forma schiacciata”. Foto ed elaborazione dell’autore.

Falla il giorno prima, magari alla mattina, la lasci in carico due o tre ore, il tempo necessario, poi la avvolgi in un tovagliolo bianco bagnato e strizzato e la riponi in frigo.

Ecco fatto la cima è pronta da gustare. Spero di esser stata chiara, questo è il metodo che faccio io e che fa mia madre e poi mia nonna.

Se la fai così per filo e per segno, vedrai che ti verrà bene…

Ricetta e procedimenti di un’anziana cuoca genovese che non c’è più.