“I Genovesi non…

si raffinano in nessun modo; sono pietre massicce che non si lasciano tagliare”.

“Genovesi non sono affatto socievoli; e questo carattere deriva piuttosto dalla loro estrema avarizia che non da un’indole forastica: perché non potete credere fino a che punto arriva la parsimonia di quei principi. Non c’è niente di più bugiardo dei loro palazzi. Di fuori, una casa superba, e dentro una vecchia serva che fila. Se nelle case più illustri vedete un paggio, è perché non ci sono domestici. Invitare qualcuno a pranzo è a Genova una cosa inaudita…

… Quei bei palazzi sono in realtà, fino al terzo piano, magazzini per le merci. Tutti esercitano il commercio, e il primo mercante è il Doge. Tutto questo rende gli animi della gente assai bassi, anche se molto vani. Hanno palazzi non perché spendano, ma perché il luogo fornisce loro il marmo. Come ad Angers, dove tutte le case sono coperte di ardesia. Hanno tuttavia dei piccoli casini lungo il mare, abbastanza belli; ma la bellezza è dovuta alla posizione e al mare, che non costano nulla. I Genovesi di oggi sono tardi quanto gli antichi Liguri. Non voglio dire con questo che non intendano i loro affari: l’interesse apre gli occhi a tutti …

“Panorama dei tetti d’ardesia da Spianata castelletto”. Foto di Leti Gagge.

… C’è una cosa ancora: che i Genovesi non si raffinano in nessun modo: sono pietre massicce che non si lasciano tagliare. Quelli che sono stati inviati nelle corti straniere, ne son tornati Genovesi come prima”.

Probabilmente nelle intenzioni del celebre giurista e filosofo francese questo lapidario giudizio finale non suonava di certo come un complimento, a me invece pare un meraviglioso quanto involontario omaggio alla tenacia dei nostri avi.

Che Montesquieu non provasse simpatia e stima per la nostra stirpe è confermato da altri appunti annotati nel suo “Viaggio in Italia” del 1728:

“C’è sempre un nobile Genovese in viaggio per chiedere perdono a qualche sovrano delle sciocchezze che fa la sua repubblica”.

Addirittura disprezzo per i diplomatici della Repubblica…

“Non c’è stato in Europa che sia stato sottoposto a tanti soprusi come quello di Genova, e che si sia comportato con tanta bassezza nei vari intrighi in cui sia venuto a trovarsi”

E se i genovesi non erano di suo gradimento figurarsi le loro donne di cui lamenta spocchia e superbia…

“I Genovesi sono molto paurosi, anche se orgogliosissimi.
Le signore sono molto altezzose…

… Ed io dicevo che mettere le signore di Genova al rango delle principesse di Francia era come mettere dei pipistrelli sullo stesso piano delle aquile”.

Nemmeno il soggiorno ha soddisfatto il filosofo..

“Genova vista dal mare in un acquerello del 1810 circa”.

“Io sono stato otto giorni a Genova e mi sono annoiato a morte: è la Narbonne d’Italia. Non vi è nulla da vedere salvo un bel porto, ma assai pericoloso; case costruite in marmo perché la pietra è troppo cara; e degli ebrei che vanno a Messa”…

Insomma la Superba non gli è proprio piaciuta:

“Non è una gran fortuna abitare in questa città. Per prima cosa, il popolo è oppresso da monopoli sul pane, sul vino e su tutti i generi alimentari. È la Repubblica stessa che vende questi generi. La punizione dei crimini è così mal organizzata che risulta minor disgrazia aver ucciso un uomo che aver frodato su un’imposta”.

Certo non si è speso in descrizioni dettagliate, anzi è stato proprio essenziale, ma anch’egli non è rimasto indifferente al fascino della città vista dal mare

“La città, vista dal mare, è molto bella. Il mare penetra nella terra, e fa un arco, intorno al quale è la città di Genova”.

 

Storia di Paciugo e Paciuga…

e breve menzione del Santuario di Coronata.

Le notizie sulla chiesa di S. Michele Arcangelo e Santa Maria dell’Incoronata si perdono nella notte dei tempi allorquando, una misteriosa Madonna lignea comparve sulla spiaggia di Caput Arenae e, spostandosi continuamente, si lasciò cogliere solo sulla collina di Coronata.

Al suo interno, fra le tante opere d’arte, interessante come testimonianza dal punto di vista storico una tela ottocentesca raffigurante il Doge Tomaso di Campofregoso in pellegrinaggio al Santuario in segno di ringraziamento per una battaglia navale contro gli Aragonesi, avvenuta nel 1420."Santuario di S. MIchele e S. Maria Incoronata".

Nel 1887 padre Persoglio, rovistando negli archivi, ci trasmise in stretto genovese, una curiosa storiella accaduta, pare, in pieno Medioevo:

Paciuga, ogni sabato, dalla sua abitazione nel borgo di Prè si recava, dopo lungo scarpinare, al Santuario per pregare e chiedere il ritorno, sano e salvo, di Paciugo, il marito marinaio catturato dai Turchi.

I vicini, malelingue, pensarono subito ad una tresca e sparsero in giro tale menzogna.

Un bel giorno Paciugo, sfuggito ai Musulmani, riapparve in Darsena ma, prima che gli abbracci della moglie, lo accolsero le altrui calunnie.

Il marinaio, con il cuore gonfio d’odio, corse a casa e, per festeggiare il suo avventuroso rientro, invitò la sua bella ad una gita in barca. Giunto al largo, accusò la moglie e, nonostante le sue accorate smentite, la affogò.

Appurato, in seguito, che Paciuga era stata sincera, non sapeva darsi pace per l’orrendo assassinio.

Fu allora che la Madonna, colpita dal suo sincero pentimento, lo condusse al Santuario dove poté riabbracciare la sua fedele sposa.

Storia di una meravigliosa… e misteriosa Signora…

Nel gennaio del 1636 il porto di Genova è devastato da una terribile mareggiata che, di fatto, spazza via tutte le navi. A Zena si sa, non si butta via niente così i rottami delle imbarcazioni vengono messi all’asta.

Due marinai acquistano una prosperosa polena appartenuta ad una nave d’alto bordo irlandese e, in attesa di decidere cosa farne, la ripongono in un magazzino di un palazzo della famiglia Lomellini.

Lì rimarrà  dimenticata per settanta lunghi anni fino a quando un bambino cadrà dall’ultimo piano di quell’edificio rimanendo illeso.

Il fanciullo alla gente accorsa incredula racconterà di essere stato preso in braccio da una bella signora vestita d’azzurro, uscita dal magazzino.

“Il prezioso altare in cui è conservata la Madonna della Fortuna”. Foto di Franco Risso.

Sfondata la porta, trovarono l’azzurra polena e subito la vestirono con abiti sacri e la portarono nella vicina chiesa.

Ancora oggi, per chi ci crede, è venerata nella chiesa di San Carlo in Via Balbi, con il nome di “Madonna della Fortuna” perché fu un vento di fortunale a portarla nella nostra città e porta fortuna a chi la onora.

Storia di un Teatro libertino e…

leggenda di una maschera… con un dolce finale.
In Vico dietro il coro delle vigne, nei pressi dell’omonima chiesa, aveva sede sul finire del ‘600 un’osteria che, nel 1702 si trasformò in un teatro molto popolare.
Spesso offriva spettacoli di girovaghi scatenando, per questioni di moralità, la repressione delle autorità cittadine: “si permettono gesti, motti, atteggiamenti ed anche abbracciamenti che non sono degni di una nazione civile e gentile”.
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Vico dietro il coro delle Vigne”. Foto di Giovanni Cogorno.

Ad inizio ‘800 vi si esibì la Compagnia di burattini Sales Bellone famosa per le gesta del vivace contadino piemontese Gerolamo, personaggio da loro creato.
Essendo Girolamo anche il nome del Doge dell’epoca (Durazzo) la polizia impose, per scongiurare imbarazzi, il mutamento del nome in “Giuanin d’la douja”(Giovanni della Foglietta) che, nel tempo, si trasformò in Gianduj
a.
Così nacque la più famosa maschera piemontese e, più tardi, l’accostamento al celebre cioccolatino.

In Copertina: immagine di Gianduja maschera piemontese (Asti, Torino). Tratta dal sito castellalfero.net

Storia di una battaglia… la battaglia…

… di una piazzetta speciale… e di 9000 massacan.

Nell’anno del signore 1284, dopo secolare contesa, Genova nella più imponente delle battaglie navali medioevali, dinnanzi allo scoglio della Meloria, sconfigge definitivamente Pisa, l’odiata rivale.
Vengono condotti in città 9000 prigionieri destinati ai lavori manuali ma dopo mesi di stenti molti di loro non supereranno l’inverno.
Sotto la pavimentazione a “risseu”(mosaico ligure di ciotoli di mare), in occasione dei lavori di restauro per le Colombiadi, sono stati rinvenuti numerosi resti umani che testimoniano come quello fosse il cimitero a loro destinato.

"La Torre della Meloria".
“La Torre della Meloria”.
Questo magico luogo ha fornito spunto per una colorita spiegazione del termine massacan secondo la quale i Nobili genovesi portavano i loro figli a guardare i prigionieri mentre faticavano e, indicandoli dicevano con disprezzo:”Mia sta massa de can”.
D’altra parte che tra i due popoli non corresse buon sangue è testimoniato dal vecchio adagio che recita:
“Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”.
Altre fonti raccontano invece di un attacco turco alla città nel ‘500 sventato dalla prontezza e dal coraggio degli operai che stavano lavorando alla costruzione di porta Siberia, o meglio, del Molo.
Costoro avvistarono i saraceni all’orizzonte e al grido di “massacan” (ammazza i cani) saltarono sulle galee e li respinsero.
Secondo i glottologi queste sono solo fantasiose ipotesi perché l’origine della parola, per la prima volta citata nel 1178 in relazione ad un tal Anrico Maçacano, magister antelamo savonese (cioè tagliapietre) che esercitava tale professione, risale all’etimo diffuso anche in altre lingue e dialetti con il significato di “ciottolo, pietra arrotondata” della quale ci si serviva per scacciare (ed eventualmente ammazzare) i cani molesti. Da qui il passaggio a “sasso” in genere, poi a “pietra da costruzione” e infine, per estensione, nell’area ligure a “muratore”. Se già in alcuni documenti savonesi nel 1272-1273 il termine significava “pietra da costruzione”, lo si trova per la prima volta in volgare genovese nel 1471 e poi nel 1475 legato ai magistri antelami che operavano a Caffa in Crimea (Piccolo dizionario etimologico ligure” del Prof Fiorenzo Toso ed. Zona 2015).
In ogni caso i racconti leggendari relativi ai pisani di Campo Pisano e ai turchi di Porta Siberia sono, per me, ricchi di fascino e come tali li tramando.
 

Storia di una contesa…

d’onore e di una Chiesa… ormai dimenticata…
Non è la Cattedrale, né S. Agostino, né San Matteo e nemmeno Santo Stefano, bensì Santa Maria in Via Lata, la chiesa gentilizia dei Fieschi.
Costruita nel 1340 a bande bianco nere, marmo di Carrara e ardesia, come nella miglior tradizione del gotico genovese ospitò, come l’attiguo Palazzo, illustri personaggi quali Re Luigi dodicesimo e Papa Paolo terzo.
Il Palazzo dei Fieschi, ritenuto il più sfarzoso della città, venne abbattuto per decreto del Senato, in seguito alla fallita congiura contro i Doria del 1547.
Demolito il palazzo, esiliati i membri della casata, la chiesa, ripulita da stemmi, lapidi ed epigrafi che ne ricordassero le gesta, venne preservata.
A causa di un diverbio dovuto al ritardo dell’inizio di una funzione religiosa a loro imputato, i Sauli vennero invitati dai Fieschi a non presentarsi più nella loro chiesa.
Bandinello Sauli, offeso da tale allontanamento, promise che avrebbe costruito, per tutta risposta, la più grande Basilica che Genova avesse mai visto, la vicina Basilica di Santa Maria Assunta di Carignano.
Nel 1858 cessò la carica dell’ultimo abate dei Conti di Lavagna, il campanile venne abbattuto e, da allora, l’edificio ha subito innumerevoli danni, passaggi di mano e peripezie.

Oggi, sconsacrato, ospita un laboratorio di restauro a pochi passi da Salita San Leonardo che, nel ‘600 fu la sede della Bottega dei Piola, dinastia di artigiani e pittori, insuperati maestri del Barocchetto genovese.

Storia di un obelisco…

… di quarantaquattro argani… di funi e di un arguto marinaio genovese…
Nel 1586 Papa Sisto V decise di spostare il gigantesco obelisco proveniente da Eliopoli dalla sua originaria locazione, il Circo di Nerone, alla Piazza di San Pietro.
Per muovere la stele di granito rosso, alta oltre venticinque metri e pesante alcune decine di tonnellate, venne incaricato Domenico Fontana, celeberrimo architetto vaticano.
Il giorno dell’evento la Città Eterna fu bloccata e la Piazza gremita da una folla strabocchevole assiepata, in religioso silenzio, per assistere all’incredibile impresa.

L’obelisco egizio infatti, avrebbe dovuto essere collocato su di un piedistallo rialzato, poggiato su quattro bronzei leoni, al centro della Piazza.

obelisco
“I faraonici lavori di sistemazione dell’Obelisco”.
“Cordame navale attività artigianale in cui genovesi e veneziani erano indiscussi maestri.” Foto di Leti Gagge.

Vennero impiegati quarantaquattro argani, centoquaranta cavalli, alcune centinaia di uomini e un numero non quantificabile di funi.
Sotto lo sforzo della tensione le corde stavano per spezzarsi quando, l
eggenda narra, che un marinaio genovese interruppe l’irreale silenzio, urlando: “Aegua ai cai” (acqua alle funi), “Daghe l’aiga ae corde”.
Subito le guardie gli andarono incontro per punire cotanta sfrontatezza… ma il genovese, per nulla intimidito, avvezzo alle tempeste di mare e a mettere in sicurezza gli alberi maestri, ripeté sicuro: “Acqua ai cavi”… “Da ni atri, a Zena, faemmo cusci.”
Le funi vennero bagnate, accorciandosi, resistettero allo sforzo e portarono a termine il loro arduo compito. Quel coraggioso marinaio era il capitano sanremese Benedetto Bresca a quel tempo fedele cittadino della Repubblica di Genova.

Come premio Il Papa concesse al marinaio il privilegio di poter issare il vessillo pontificio sulla propria imbarcazione, una lauta ricompensa  e l’onore di rifornire di palme la Basilica di San Pietro durante la Settimana Santa.

Tradizione che da secoli la città dei fiori continua a rispettare orgogliosa!

Storia di una Piazza… di mercanti…

di alabardieri… e di fallimenti.
Fin dal finire del 1100 mercanti e marinai provenienti da ogni angolo di mondo attraccavano le loro navi nei pressi dell’attuale Sottoripa, saldavano le gabelle dovute alla Dogana di Campetto prima, S. Giorgio poi e si recavano nello retrostante piazza per smerciare i propri prodotti.
Lì li attendevano i cambia valute che, ognuno col proprio banco e sgabello, annotava e registrava le operazioni di cambio.
"La loggia dei mercanti in Piazza Banchi".
“La loggia dei mercanti in Piazza Banchi”.

 

Piazza dei Banchi con la chiesa di S. Pietro della Porta”.

Quando sorgevano contestazioni o dissidi intervenivano gli alabardieri che, accertato l’eventuale dolo, provvedevano con un colpo di scure a rompere il banco e, di fatto, a impedire al cambiavalute di proseguire la propria attività.

Da qui, ancora oggi in tutto il mondo Wall Street compresa, l’utilizzo del termine “bancarotta”.
Ecco il perché del nome di questa Piazza che presenta altre meraviglie come la Loggia dei Mercanti, il Palazzo dei Conservatori del Mare (la più antica magistratura portuale del mondo), la Porta di S. Pietro e l’omonima Chiesa (unico caso di una chiesa eretta sopra un piano adibito agli esercizi commerciali e mantenuta dagli stessi).
 

Storia di una Madonna infreddolita…

e… dimenticata
In Vico della Neve, fino alla fine dell’800, si trovavano le botteghe che vendevano ghiaccio e neve necessari per la conservazione degli alimenti.
Venivano prodotti dalle neviere ricavate nei pressi del Forte Diamante.

“S’intravedono ancora i vivaci colori del giallo ocra dell’edicola e l’azzurro intenso del tabernacolo. Sotto la statua, sul , portale, il trigramma di Cristo con corona”. Foto di Giovanni Caciagli.

Come ogni mestiere o corporazione che si rispetti anche questi artigiani eressero la loro edicola intitolandola alla Madonna Regina e al Bambinello. Realizzata in stucco nel XVIII sec. oggi,  purtroppo, giace mutilata e trascurata, dimenticata da tutti nel più imbarazzante degrado.
La Madonna della Neve, questo il suo nome, ha sopportato il freddo delle neviere ma non quello dell’indifferenza.

Storia… di una famiglia di marinai…

… e dell’ultima delle vigne…
Come testimonia il toponimo stesso di S. Maria delle Vigne, la zona, anticamente, era adibita alla coltivazione della vite.
Era usanza diffusa infatti conservarne tralci sulle terrazze come prova del benessere familiare.
Se si eccettua il quartiere del Carmine 
l’ultima vite rimasta nel centro storico è quella che si arrampica in Piazza dei Leccavela, vicino ai SS. Cosma e Damiano.
La Piazza prende il nome dalla prestigiosa famiglia di marittimi Genovesi, il cui simbolo araldico raffigurava tre vele triangolari, che in quel tempo qui, avevano le loro dimore.