Il Palazzo dei Marmi…

“Le cinque statue, da sinistra a destra Oberto, Corrado, Opizzino, Galeotto, Giacomo”.

… storie di consoli, capitani, ammiragli…

Affacciato su Piazza Fontane Amorose (questa dal ‘400 al 1868 l’antica denominazione di Piazza Fontane Marose) al n.6 è impossibile non notare il palazzo caratterizzato dalla facciata a fasce bicrome di marmo e pietra, il classico bianco del marmo di Carrara alternato al nero della pietra di Promontorio. Venne costruito fra il 1445 e il 1449 nell’area dove si ergeva un’antica torre della famiglia. Si tratta del Palazzo di Giacomo Spinola, meglio noto, per il suo particolare aspetto, con l’appellativo “dei Marmi”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è marose-2.jpg
“Palazzo Giacomo Spinola”. Foto di Leti Gagge.

In origine l’edificio e fino al 1832 sorgeva, sullo stile di Piazza S. Matteo, sopra una piazzetta sopraelevata che fiancheggiava la prosecuzione di Via Luccoli verso Salita Santa Caterina dove si trovava l’omonimo varco.

Con l’apertura ottocentesca di Via XXV aprile  le sue caratteristiche vennero significativamente stravolte non solo nel prospetto esterno ma anche negli ambienti interni.

 

received_1600743743276455
“Decori sul prospetto angolo Via XXV aprile. In evidenza l’edicola e una cornucopia”. Foto di Leti Gagge.

Il recupero del palazzo nella versione in cui oggi lo possiamo ammirare è stato avviato dagli architetti Calza e Badano a partire dal 1989.

Al primo piano nobile si alternano quattro quadrifore e cinque nicchie con le quattrocentesche statue di illustri personaggi del Casato: Corrado, Opizzino, Oberto, Galeotto e Giacomo. Sulla facciata sono poste le relative lapidi che ne raccontano le eroiche gesta e ne permettono l’identificazione.

La prima di queste inerente Oberto recita ad esempio:

“Sum Spinula Obertus Loculo Qui Cognitus Astris/

Imperio Obtinui Ianuam Comitante Popello/

Attamen Aurigenam Socium Sme Marte Posci”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 71691189_1708180172646833_7959941594952499200_n.jpg
“Oberto Spinola regge lo scudo del casato”.

Oberto, Console e Capitano del Popolo, insieme al suo omonimo appartenente ai Doria diede origine alla ventennale diarchia dei “due Oberti”. A costoro si deve l’edificazione del primitivo nucleo del futuro Palazzo Ducale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 70512582_1708180122646838_914185614314700800_n.jpg
“Corrado Spinola”.

La seconda ricorda Corrado, tre volte eletto Console della Repubblica e Ammiraglio di Aragona e Sicilia per conto del re di quelle terre.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 71514126_1708180015980182_6366862118045614080_n.jpg
“Opizzino Spinola”

La terza celebra Opizzino, capitano del Popolo, figura diplomatica e uomo di punta dell’Impero in città.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 70851905_1708180062646844_3477299977762373632_n.jpg
“Galeotto Spinola”.

La quarta menziona Galeotto, ultimo capitano del popolo insieme a Raffaele D’Oria, dal 1335 al 1339, prima della rivoluzione “popolare” che portò all’elezione, nel 1339 appunto, del primo Doge Simone Boccanegra.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 70693384_1708180335980150_1076204090096091136_n-1.jpg
“Giacomo Spinola”.

La quinta e ultima racconta di Giacomo il committente del palazzo. Costui fece predisporre la nicchia vuota pronta per ospitare, post mortem, la propria statua auto celebrativa.

Le sculture di Oberto, Giacomo, Galeotto e Opizzino sono contemporanee: realizzate da Domenico Gagini le prime tre, da Giovanni Gagini la quarta.

L’ultima invece, quella relativa al padrone di casa, posteriore di circa 40 anni rispetto alle altre, è opera di Giovanni Antonio Amadeo.

Altri grandi personaggi come l’Ammiraglio Francesco, il Doge Agostino e il Generale Ambrogio dovevano ancora nascere…

Il Palazzo del Vescovo…

Durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale tutta l’area di Sarzano subì gravi danni, nemmeno le chiese di S. Salvatore, S. Agostino e S. Silvestro, vennero risparmiate dalle incursioni aeree e navali degli alleati.

received_1600144376669725
“Il restaurato Campanile di S. Silvestro con, in primo piano, brani delle antiche mura”. Foto di Leti Gagge.

Di quest’ultima, eretta nel XVII sec., sulle fondamenta del precedente edificio sacro fondato nel 1160, non restò che in piedi, come ultimo eroico baluardo, un mozzicone del campanile, oggi restaurato.

Un anonimo viaggiatore la descrive come piuttosto piccola con tre altari in marmo e colonne rosse ritorte. Per quanto riguarda l’interno scrive: «è […] tutta riccamente indorata. Fra le immagini che si espongono per rappresentare la Deposizione del Signore nel Santo Sepolcro la Settimana Santa, bella è sopra ogni altra, quella che si vede in questa chiesa, opera al certo di Gio Battista Bissone, e tale per la sua leggiadria, per la finezza estrema, ed esatta proporzione di tutte le sue parti con cui è ammirabilmente condotta, che è gran peccato sia in legno e non in marmo eseguita»

received_1601666373184192
“Il Campanile visto dallo scenografico ingresso della Facoltà di Architettura in Stradone S. Agostino”. Foto di Leti Gagge.

Nel decennio successivo al termine della guerra le macerie di S. Silvestro vennero abusivamente occupate dai senza tetto che ne fecero la propria disastrata dimora, abitando in baracche e improvvisati tuguri. Purtroppo, in questo periodo, complice il disinteresse delle autorità cittadine, il Convento venne depredato di gran parte delle sue opere d’arte, andate ad arricchire qualche preziosa collezione privata.

s-silvestro
“In basso a sinistra il Campanile di S. Agostino, al centro quello di S. Silvestro, accanto inglobato in uno degli edifici della Facoltà uno dei due torrioni, quello quadrato del Palazzo del Vescovo. Dell’altro pentagonale restano solo alcune pietre a segnarne la base. In alto a sinistra il chiostro e i giardini pensili, sullo sfondo immancabile, il mare”.

Fra il 1948 e il 1949 le rovine di S. Silvestro furono utilizzate come ambientazione principale per le riprese del film di René Clement “Au delà des Grilles” (liberamente tradotto in italiano “Le Mura di Malapaga”) interpretato da Jean Gabin e Isa Miranda. Tutta la storia è ambientata nel centro storico della nostra città e costituisce un documento imperdibile per la conoscenza della Genova del dopo guerra.

A metà degli anni ’60, finalmente, si iniziò a ragionare su come recuperare l’area e , durante i relativi scavi archeologici, vennero alla luce importanti resti dei primi insediamenti etrusco-liguri, romani e medievali del Colle.

received_1601666216517541
“Arco e scalinata dello scenografico accesso oggi, alla Facoltà di Architettura, un tempo al Palazzo del Vescovo”. Foto di Leti Gagge.

Nel 1990 gli architetti Gardella e Grossi Bianchi restaurarono il complesso, ricostruendo le parti crollate come il chiostro, mantenendo i volumi originari, vedi la chiesa e valorizzando le strutture medievali, soprattutto brani di muri e uno dei torrioni all’interno del palazzo del Vescovo. Il monumentale Complesso è divenuto così impareggiabile sede della Facoltà di Architettura dell’Università di Genova.

img_20161118_125446
“La piccola Crocifissione marmorea”.

Di particolare interesse è il percorso di accesso all’aula “Benvenuto” che costeggia il “muro lungo”, la più antica struttura, ancora visibile, delle fortificazioni del IX e X secolo. Sopra la porta di accesso all’aula, di quello che un tempo, oltre che refettorio delle monache, era stato anche l’alloggio del Vescovo, una graziosa crocifissione marmorea. In questo locale vennero custodite le secentesche sculture della distrutta chiesa di S. Silvestro.

img_20161118_122522
“Il Portale di Giacomo Gaggini nella sua collocazione originaria”.

Nella zona verso S. Maria di Castello i giardini che degradano sul colle in quell’epoca facevano parte del confinante  complesso di S. Maria in Passione. Quest’area, oggi chiusa da una grata di ferro, costituiva l’antica piazza di S. Silvestro, l’originario ingresso di Convento e Chiesa, dotato di un ricco portale barocco scolpito con due splendidi angeli opera di Giacomo Gaggini e dei maestri Angelo Maria Mortola e Carlo Cacciatori.

portale-s-silvestro-a-palazzo-rosso
“Lo stesso Portale nella sua attuale posizione nel cortile di Palazzo Rosso”.

Il maestoso portale, recuperato e restaurato, oggi fa bella mostra di sé nel cortile di Palazzo Rosso in Via Garibaldi.

img_20161118_122604
“Formella raffigurante il Vescovo, incastonata nelle mura lato Stradone S. Agostino”.

Sullo scenografico lato verso Stradone S. Agostino si elevano invece maestosi i familiari bastioni in pietra, incastonati di formelle di marmo con fregi e rilievi.

In questa piazza, l’antico “Castrum”, a due passi dalla millenaria cattedrale di S. Maria di Castello, sopra l’approdo del Mandraccio, non poteva mancare, a vegliare sulle sorti della “Dominante”, il Palazzo del Vescovo.

La chiesa dove splende sempre il sole…

Fuori dalle Mura del Barbarossa, costruite fra il 1155 e il 1163, si trovava la zona militare dove si esercitavano i balestrieri. Tale spazio era detto del “Vastato o Guastato” perché stava ad indicare i luoghi dei “guasti”, ovvero dei lavori di demolizioni e spianate attorno alle mura. Il Vastato e l’attiguo “burgus de praedis” (borgo di Prè) divennero così i siti prescelti per allestire campi di simulazione e allenamento funzionali alle attività belliche. Qui nel tratto compreso fra i due rivi, oggi sotterranei, di Carbonara e Vallechiara, esisteva dal 1228 una piccola chiesa denominata S. Marta del Prato, sulle cui fondamenta verrà successivamente eretta la maestosa Basilica dell’Annunziata. Nel 1508 i frati conventuali di S. Francesco, gli stessi del Castelletto e di Albaro vi si insediarono ed iniziarono i lavori di costruzione ed ampliamento del nuovo edificio intitolandolo al loro patrono, Francesco d’Assisi. Nel 1537 i francescani traslocarono e si ritirarono nella casa madre in S. Francesco del Castelletto. Furono sostituiti dagli Osservanti del convento della Santissima Annunziata di Portoria che ne mutarono il nome in Santissima Annunziata del Vastato. Sul finire del ‘500 i Frati, per ottemperare alle nuove disposizioni emanate dal Concilio di Trento, furono costretti a rinnovare la struttura. Le spese previste erano però di gran lunga superiori alle loro possibilità economiche così cedettero il giuspatronato della cappella maggiore alla potentissima e munifica famiglia dei Lomellini. La nobile e antica casata, padrona della colonia tunisina di Tabarca in cui esercitava la pesca del corallo, aveva accumulato immense ricchezze e non ebbe difficoltà a finanziare i lavori. Costoro ingaggiarono i maggiori artisti del ‘600 genovese; a Taddeo Carlone, Giacomo Porta e Domenico Casella (il cui soprannome “Scorticone” descrive bene il carattere rissaiolo dell’artista) furono affidate le principali opere strutturali e la direzione dei lavori. A questi si aggiunse il fior fiore, il gotha, delle maestranze genovesi del ‘6oo, la cui rinomata scuola aveva da tempo varcato i confini repubblicani: Giovanni e Giovanni Battista Carlone, Gioacchino Assereto, Domenico Piola, Luca Cambiaso, Giovanni Battista Paggi, Gregorio De Ferrari, Andrea Semino, Aurelio Lomi, Giovanni Andrea De Ferrari, Il Guercino, Luciano Borzone, i marmisti il marsigliese Pellè e il già citato Giacomo Porta, Procaccini, Bernardo Strozzi, lo scultore Tommaso Orsolino.

received_1593995610617935
“La principale delle tre navate della Basilica”. Foto di Leti Gagge.

La decorazione della cupola venne affidata ad Andrea Ansaldo che vi si dedicò nei tre anni antecedenti la morte, avvenuta a soli 54 anni, dipingendola con la magnifica scena dell’Assunzione. Per tutto il ‘700  le vicende della chiesa ruotarono attorno alle fortune della schiatta dei Lomellini che, estinguendosi nel 1794, non assistettero all’umiliazione della confisca della struttura, infelice conseguenza dell’effimera e neonata Repubblica Ligure del 1797.

received_1593995940617902
“Nella cupola sopra l’altare l’Annunciazione di Andrea Ansaldo”. Foto di Leti Gagge.

I frati, in base alle disposizioni napoleoniche, abbandonarono il convento nel 1810 e vi fecero ritorno  solo nel 1815 quando ospitarono Papa Pio VII, di passaggio in città e in viaggio verso Roma, dopo la prigionia francese. Il Pontefice vi celebrò con solenni e memorabili funzioni l’Ascensione il 4 e la Pentecoste il 14 maggio.

received_1593995240617972
“Il Pronao della facciata neoclassica disegnato dal Barabino e completato dal Resasco”. Foto di Leti Gagge.

La scenografica facciata neoclassica con l’ormai familiare pronao caratterizzata da sei colonne in stile ionico, costituisce l’intervento strutturale più recente, essendo stato portato a termine nel 1867 sulla base dei progetti dell’architetto Carlo Barabino e del suo successore Giovanni Battista Resasco (i due colleghi e amici avevano anche realizzato il Cimitero Monumentale di Staglieno).

received_1593996620617834
“Particolari dei cicli pittorici della volta”. Foto di Leti Gagge.

La Basilica dell’Annunziata rappresenta la summa, il capolavoro del Barocco genovese; l’effetto d’insieme è abbagliante, un tripudio di marmi, stucchi, affreschi, ornamenti in oro zecchino, ogni singolo centimetro è decorato come si conviene. Sembra sempre che vi splenda il sole, un’irruzione dirompente e artificiale dai riflessi abbacinanti. Il celebre filosofo francese Montesquieu visitandola, ne rimase talmente affascinato, da definirla “la più bella chiesa di Genova”.  Molti furono le personalità attratte dalla bellezza della Basilica ma la descrizione, a mio parere più appropriata, rimane quella  che ne tracciò il letterato parigino Adolphe Karr.

received_1593995807284582
“La volta dorata e affrescata”. Foto di Leti Gagge.

«…l’ Annunziata ha l’interno tutto dorato, tutto letteralmente, e i giorni di festa le colonne di marmo sono rivestite di damasco o velluto crimisi a frangie d’oro». Lo scrittore osserva la sostanziale differenza che contraddistingue le chiese genovesi da quelle francesi. In Francia la luce penetra misteriosamente e crea una «…dolce musica di colori che si armonizza con la musica dell’organo…», grazie alla forma ogivale delle finestre ed alla presenza di grandi vetrate. In Italia, invece, le volte basse e quadrate e la presenza di grandi finestre permettono al sole di entrare bruscamente, senza creare quella dolce armonia tanto cara al transalpino che, a proposito dello stile di vita genovese, prosegue «…non si mangia e non si dà da mangiare, non ci si veste e si va a una chiesa o un palazzo. La chiesa d’oro e il palazzo di marmo».

Non la pensava diversamente lo scrittore americano Mark Twain che nei suoi appunti annotava:

received_1593997057284457
“Gli interni”. Foto di Leti Gagge.

 potrei dire che la chiesa dell’ Annunziata è una foresta di bellissime colonne, di statue, di dorature, di dipinti quasi senza numero, ma non darei un’idea esatta della cosa, e a che servirebbe? Fu costruita interamente da un’antica famiglia, che vi esaurì il suo denaro. Ecco dov’è il mistero. Avevamo idea che solo una zecca sarebbe sopravvissuta alla spesa…».

Durante la Seconda Guerra Mondiale l’Annunziata subì diversi bombardamenti, il più grave dei quali, quello del 29 ottobre 1943, causò danni irreparabili e la perdita degli importanti cicli pittorici di Domenico Fiasella.

I lavori di ripristino condotti nel dopoguerra hanno riconsegnato la Basilica al suo antico splendore  e restituito, ai suoi ammiratori, legittimo orgoglio e giustificato stupore.

Se, come disse Carlo V a proposito del suo impero, a sottolinearne la vastità, “nel mio regno non tramonta mai il sole”, lo stesso si può dire della Nunziata di Genova, la chiesa “dove risplende sempre il sole”.

Gli aromi e gli odori della stanza… del tesoro

“Caroggio del Promontorio”, così un tempo era chiamato Vico Casana, perché conduceva verso lo scomparso colle di Piccapietra, spianato poi per far spazio alle odierne Via Roma e Galleria Mazzini.

L’attuale nome del vicolo trae origine dal turco “Chasana” che indicava la stanza del tesoro del sultano di Costantinopoli.

received_1596405130376983
“La salita di Vico Casana”. Foto di Leti Gagge.

Nel medioevo il termine casana venne associato al tesoro del banco dei pegni e con il titolo di casanieri furono identificati i prestatori privati di denaro. Costoro offrivano palanche a tassi elevati, insomma erano dei veri e propri strozzini.

Ma con l’istituzione del Monte di Pietà le attività di questi usurai ebbero un significativo ridimensionamento. Genova, dal canto suo, già dal 1403 aveva creato il Magistrato della Misericordia e dal 1442 l’ospedale di Pammatone proprio per tutelare la popolazione da queste lucrose prassi.

 Il nuovo Ente nacque nel 1463 a Perugia per volere dell’ Ordine dei Francescani, comunità alla quale apparteneva anche Frate Angelo da Chivasso che a lungo dimorò nella nostra città e che ne favorì la diffusione.

img_20161115_211157
“Mosaico custodito nel vicino palazzo della Carige che rappresenta Padre Angelo da Chivasso accompagnato da un fratello dell’ordine. Sullo sfondo, si riconoscono, le Torri di Porta Soprana”.

Costui infatti, abile e stimato predicatore, si distinse nell’opera di  fondazione nel 1483 del primo Monte di Pietà genovese, istituto che  successivamente contribuì  a diramare anche a Savona.

Percorrendo la salita ammiriamo i preziosi gioielli che costituiscono, tuttora il suo “tesoro”:

received_1595931210424375
“Cappa, piastrelle, pavimento e paioli della cucina dell’antica tripperia”. Foto di Leti Gagge.

Al civ. n. 3  s’incontra “l’antica tripperia, già Cavagnaro”, fondata nel 1890, l’ultima rimasta delle circa 200 in cui ci si poteva imbattere nel centro storico ad inizio del ‘900. Pavimenti alla genovese, bancone in marmo, cucina a ronfò con cappa aspirante piastrellata, pentoloni e paioli di rame in cui, oltre alle trippe, segno dei tempi, già preparate in tutte le maniere, si può gustare la famosa “sbira”, il brodo di trippa con cui facevano colazione i Camalli.

received_1595930817091081
“Riflessa negli specchi del bistrot le Cafè de Paris, Leti Gagge, l’autrice della foto”.

Dal civ. n. 20 r  “Il Cafè de Paris” un elegante bistrot, arredato fine ‘800 e in stile liberty, perfettamente conservato, proviene invece un invitante ed avvolgente aroma di caffè.

Al civ. n. 7r sulla base del nobile portale in marmo due suggestivi rilievi raffiguranti, su uno sfondo di alberi e rocce, Ercole in lotta con Anteo il primo, Ercole contro il leone Nemeo, il secondo.

edicola-angolo-con-via-chiossone
“All’angolo con Via David Chiossone l’edicola della Madonna Regina”.

All’angolo con Via Chiossone  l’edicola    con statua secentesca della Madonna Regina sulla cui base l’epigrafe recita “Sub tuum praesidium”. Fra quelle  in stucco una delle meglio conservate, mirabile esempio del barocchetto genovese applicato non ad una opulenta chiesa, bensì ad una semplice Votiva di strada.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è FB_IMG_1589315350762-1.jpg
“Al civ. n. 7 Ercole combatte Anteo”

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è FB_IMG_1589315359809.jpg
“Al civ. n. 7 Ercole smascella il leone Nemeo”.

Nel frattempo Ercole ed Anteo hanno sospeso la loro lotta, ingolositi dall’appetitoso odore di trippa che impregna di aromi “il caruggio del tesoro”, si sono presi una pausa…  e non stupitevi se osserverete anche la chioma del leone Nemeo, riflessa nello specchio del Cafè, mentre sorseggia soddisfatto il suo aperitivo. Tali visioni non sono frutto della vostra fantasia ma di “ quell’aria carica di sale, gonfia di odori…” così piacevolmente diffusa nei nostri inimitabili caruggi, magici a tal punto da alterare la percezione che abbiamo di essi.

In copertina foto di Giancarlo Cammilli.

                                                                                                                                                             

“Umbre de muri muri de mainé”…

Nel maggio 1938 Benito Mussolini, in veste di Capo del Governo, visitò Genova che per l’occasione inaugurò la statua detta del “Navigatore“, opera dello scultore Antonio Maria Morera. In realtà quello che venne mostrato al Duce era un calco in gesso poiché l’originale sarà terminato ed esposto solo l’anno successivo.

Il monumento al marinaio, Piazza della Vittoria , l’attigua Viale Brigate Partigiane e Piazza Rossetti si collocarono nell’ambito del progetto di edilizia fascista coordinato dall’architetto Piacentini che ridisegnò completamente la zona della Foce.

navigatore
“Foto d’epoca che ritrae il Navigatore nella conformazione originaria con la scritta sul basamento “Giovinezza del Littorio fa di tutti i mari il mare nostro e, dietro all’arco, le scuri dei fasci che spuntano”.

L’artista scolpì la sua idea di un marinaio forte e possente attorno alla cui figura, nel semicerchio, incise il motto “Vivere non necesse, navigare necesse est”. La massima deriva dallo storico Plutarco il quale, a sua volta, la attribuì a Pompeo che doveva convincere il suo equipaggio, restio ad affrontare la tempesta. I marinai infatti, timorosi per la propria sopravvivenza, non volevano salpare mentre era necessario che lo facessero poiché a Roma, di quel carico di grano proveniente dall’Africa, aveva urgenza. Di fronte al bene comune, in questo caso di Roma, la paura di non farcela ed il rischio di naufragare o morire, doveva passare in secondo piano. Questo significava l’eroico messaggio del condottiero romano. L’autore eseguì il bozzetto, per sottolinearne la mascolina potenza, completamente nudo ma, causa il puritanesimo dell’epoca, il pube venne ricoperto da una succinta ed imbarazzante cintura. Fu scelto come modello l’atleta genovese Nicolò Tronci, campione italiano di ginnastica, che aveva partecipato alle Olimpiadi di Berlino del 1936.

Ai lati erano posti dei fasci littori e sul basamento originale inciso il monito “Giovinezza del Littorio fa di tutti i mari il mare nostro” in seguito, per ovvi motivi politici, vennero rimossi i primi, sostituito il secondo.

Il poeta Gabriele D’Annunzio prese il monumento come fulgido esempio dell’arditismo nazionalistico: “La statua del Navigatore è una forte e serena raffigurazione dell’uomo ligure di mare, rude, tenace e semplice che, armato di un pesante remo, scruta l’orizzonte lontano, a guardia ideale del suo porto e della sua città. La prepotente anatomia muscolare del torace e dei bicipiti, delineate e modellate con forza, ma senza esagerazioni, è chiaramente allusiva alla potente capacità operativa e manovriera dei pesanti antichi remi lignei, armati di pesante cuoio”.

img_20161113_131303-1
“Il Navigatore al giorno d’oggi, depurato dei simboli fascisti, ma con lo sguardo sempre rivolto al mare e al suo infinito orizzonte”.

Anche se per fini propagandistici, il Vate colse argutamente l’essenza del navigatore ligure in generale e genovese in particolare; ammiragli, esploratori e marinai, naviganti coraggiosi ed intraprendenti, “Umbre de muri muri de mainé con il cuore sulla terraferma ma lo sguardo sempre rivolto all’orizzonte, a quell’infinito leopardesco del “e il naufragar m’è dolce in questo mar”.

L’anonimo poeta genovese, d’altra parte, già nel ‘200 aveva colto nel segno: “Noi che sempre navegemo e ‘n gran perigor semo en questo perigoloso mar, ni mai possamo repossar…”.

“Lo Sperone di una nave… sopra un monte”…

Il Forte dello Sperone, si eleva sul monte Peralto a 512 metri s.l.m. in un sito estremamente scenografico perché punto d’incontro del baluardo con il ramo settentrionale delle secentesche Mura Nuove.

lo-sperone
“Il punto d’incontro delle Mura Nuove con lo Sperone”.

La congiunzione dei due  tratti di mura, quello sul versante della Val Polcevera e quello sul Bisagno forma una prua di una nave, a guisa di sperone che da, appunto, il nome al complesso. La Fortezza si sviluppa su tre bastioni: Bastione Puin affacciato sul lato della Val Bisagno, Punta dello Sperone rivolto a  nord e del Torbella  o Poterna  sul Polcevera.

Venne costruita nel 1747, dopo l’insurrezione contro austriaci e piemontesi, sul sito dove dal 1319 sorgeva “la Bastia del Peralto”. La supervisione dei lavori venne affidata al Capitano Speroni e da qui, per assonanza nacque l’errata interpretazione dell’etimologia del suo nome, associata al cognome del militare. La Piazza poteva ospitare fino a 125 soldati che, in caso di necessità, potevano triplicare il loro numero.

Nel 1800, durante l’assedio austro inglese della città, la “Poterna” essendo l’unica via di collegamento con il Diamante e i Due Fratelli, su disposizione del generale Massena, venne chiusa e murata perché, parole sue: “mal difesa e facile a sforzarsi ” e, soprattutto, per difendersi da eventuali sommosse intestine. L’importanza strategica del forte è testimoniata anche dalla sua straordinaria, per l’epoca, potenza di fuoco sempre, via via aumentata, dai difensori della roccaforte.

Con l’avvento dell’amministrazione francese (1805 1814) subì rifacimenti e migliorie, passato in mano sabauda nel 1815 venne sensibilmente trasformato con ampliamento della caserma e con l’elevazione di due poderose torri angolari ai vertici. La capacità di accoglienza del forte venne triplicata, 300 soldati che, all’occorrenza, potevano aumentare fino a 900.

Ripartito su tre livelli: al primo si trovavano l’ingresso principale, magazzini, locali vari, cisterne, prigione, polveriera e armeria, al secondo gli uffici, le tre camere degli ufficiali, quella del Cappellano e la Cappella, al terzo gli alloggi della truppa. La scenografica ripartizione delle masse, bilanciate sulle sporgenze irregolari del suolo, dona al forte quell’aspetto superbo ed imponente che lo contraddistingue.

sperone
“L’ingresso principale del Forte sovrastato, ahimè, dallo stemma in marmo di Carrara dei Savoia”.

 Come tutte le altre strutture circostanti, anche questo forte dal 1914 una volta dismesso, è stato abbandonato, trascurato e saccheggiato (ad esempio dall’intelaiatura in legno che ordiva il tetto). Per un breve periodo, durante la Prima Guerra Mondiale, ha ricoperto la funzione di carcere ospitando un contingente di prigionieri serbi e croati. Dagli anni ’50  agli ’80 è stato utilizzato come caserma della Guardia di Finanza. Infatti sul piazzale prospiciente sul lato nord venne costruito un edificio per le necessità dei militari che ne alterarono il prospetto originario.

Fino a qualche anno fa è stato scenario di accattivanti iniziative culturali, fungendo da spettacolare cornice a rappresentazioni artistiche di vario genere, dall’ambito storico letterario, a quello teatrale, come nel caso, ad esempio ,della nota manifestazione “Luci sui Forti”.

img_20161111_124057-1
“Immagine che rappresenta, e se ne comprende il perché, il bastione, da questo lato, venisse chiamato, vista l’interminabile successione di scalini in pietra, “delle scalette.”

Nella speranzosa attesa che anche questo gioiello venga recuperato e valorizzato nell’ambito del progetto “Forti Insieme” di delocalizzazione dal Demanio al Comune, Il Servizio Giardini e Foreste e la cooperativa Dafne, organizzano delle visite guidate. In ogni caso Lo Sperone merita di essere meta di una panoramica passeggiata… per provare l’inimitabile sensazione , in un agreste contesto, di dominare i monti dalla tolda di una nave.

“Dall’alto di un cielo, Diamante, i nostri occhi vedranno”…

… “Passare insieme soldati e spose…”

I versi della canzone, dedicata da Zucchero alla nonna, sembrano scritti apposta  per descrivere invece lo stupore che si prova davanti al Forte Diamante.

Si staglia a 670 metri s.l.m. sulla vetta dell’omonimo monte sorvegliando dall’alto le vie di comunicazione fra le Valli Polcevera e Bisagno e la città. Eretta la Rocca sui resti di quella trecentesca che un tempo era nota come la “Bastia di Pino”, all’inizio la struttura difensiva fu concepita come un semplice avamposto del Forte Sperone e solo nel 1746, all’epoca della ribellione antiaustriaca del Carbone e del Balilla, i Magistrati delle Fortificazioni ne compresero l’importanza strategica. Fu così che fra il 1756 e il 1758, incoraggiati anche dai finanziamenti privati elargiti dal Marchese Giacomo Filippo Durazzo, incaricati gli esperti ingegneri francesi, deliberarono l’erezione di una nuova fortezza.

La planimetria del forte mostra due cinture concentriche poligonali dalla singolare forma stellare, di cui quella esterna, nel suo vertice nord orientale mostra un baluardo pentagonale volto sulla strada a mezza costa che, un tempo passando sotto Porta delle Chiappe, collegava Genova con Torrazza e proseguiva verso la pianura padana.

received_1587172017966961
“Il Forte visto da un’altra prospettiva”. Foto di Leti Gagge.

Nell’anno 1800 durante l’eroico assedio subito dalla Superba per mano austriaca, il Diamante fu teatro di un episodio di coraggio e orgoglio leggendario, protagonista la guarnigione francese posta a difesa della città: Il Comandante austriaco, Conte di Hohenzollern, impadronitosi delle vicine rocche dei Due Fratelli minacciò il presidio del forte stellato difeso dall’ufficiale francese Bertrand. “Vi intimo, Comandante, di rendere all’istante il vostro Forte, altrimenti tutto è pronto ed io vi prendo d’assalto e vi passo a fil di spada. Potete ancora ottenere una capitolazione onorevole”.

received_1587171684633661
“Feritoia dalla quale sparare al nemico”. Foto di Leti Gagge.

Il Capitano francese non si scompose e diede prova di grande determinazione rinnovando il proposito di resistere: ”Signor Generale, l’onore che è il pregio più caro dei veri soldati, proibisce imperiosamente alla brava guarnigione che io comando di rendere il Forte di cui mi si è affidato il comando, perché possa acconsentire alla resa per una semplice intimazione, e mi sta troppo a cuore Signor Generale, di meritare la Vostra stima per dichiararvi che la sola forma e l’impossibilità di difendermi più a lungo, potranno determinarmi a capitolare”.

Bertrand e la sua truppa, circa 250 soldati stipati in un presidio che ne poteva ospitare un centinaio, non si arresero ed anzi, con l’aiuto dei rinforzi del Generale Soult, giunti in soccorso da Forte Sperone, costrinsero le aquile bicipiti, alla ritirata.

received_1587171387967024
“Questa particolare istantanea ha evocato in me l’immagine della prua di una nave. Anche sui monti i Genovesi si difendono costruendo navi”. Foto di Leti Gagge.

Dopo il Congresso di Vienna del 1814 e il relativo passaggio della Repubblica sotto i Savoia la struttura fu restaurata ed ammodernata dal Genio Militare sardo. Sia nel 1849 durante l’aggressione del La Marmora che nel 1857 al tempo di Mazzini e Pisacane fu oggetto di vani tentativi di occupazione da parte dei ribelli.

received_1587171861300310
“Il Diamante visto da chi arrivava da sotto”. Foto di Leti Gagge.

received_1587172367966926
“Il sentiero che si percorre al ritorno in discesa”. Foto di Leti Gagge.

Dal 1914 il Forte è stato abbandonato al suo destino. Oggi, oltre un secolo dopo, forse nell’ambito del progetto “Forti Insieme” in cui il Demanio ha accettato di cederne al Comune la gestione, si intravvede qualche spiraglio di rinascita per questo e per tutti gli altri 14 splendidi forti che, tutti insieme loro si, costituiscono una delle più estese cinte murarie d’Europa, ben 19 km di perimetro, un patrimonio storico e paesaggistico in cui investire “Palanche” e di cui andare fieri.

I Martiri della Benedicta…

Presso località Benedicta, vicino alla Capanne di Marcarolo nel territorio di Bosio, fra il 6 e l’11 aprile 1944, la Guardia Nazionale fascista e i militi tedeschi trucidarono 75 partigiani. Quattro compagnie della Guardia Repubblicana ed un corpo di granatieri di stanza a Bolzaneto accerchiarono la zona presidiata da due Brigate partigiane, la terza garibaldina di Genova, e quella autonoma di Alessandria. Partendo da Busalla, Pontedecimo, Masone, Campo Ligure, Lerma, strinsero il cerchio. Mentre la prima tentò, dividendosi in piccoli gruppi, di rompere l’assedio con azioni di coraggiosa guerriglia, la seconda male armata, si rifugiò nel Monastero di Voltaggio che venne minato e fatto esplodere. Il nucleo fondante era costituito da ex prigionieri fuggiti dai campi di concentramento e da gente dei dintorni, una quarantina di persone in tutto. In seguito si aggiunsero un centinaio di giovani che si erano rifiutati di arruolarsi nelle fila della Repubblica di Salò e si erano accampati nei pressi di un casolare, la cascina della Benedicta. Erano quasi tutti disarmati e rispondevano al comando del Capitano Odino che si era subito messo in contatto con il CNL comunicando la formazione di una nuova brigata a cui necessitavano armi e aiuto. Fu una carneficina i fedelissimi di Odino avevano cercato riparo in un anfratto del monte Tobbio, noto come la Tana del Lupo, traditi dall’abbaiare di un cane che si erano portati dietro, vennero scovati e costretti alla resa. Accerchiati dai repubblichini via via, fu la volta di tutti gli altri ragazzi che si erano sparpagliati in cerca di scampo, di arrendersi al nemico. Subito la maggior parte venne massacrata lungo il torrente Tobbio, i rimanenti ammassati nel cascinale furono successivamente fucilati a Voltaggio, Bagnara e sul Turchino. Il 19 maggio circa un mese dopo, infatti, altri 17 partigiani furono fucilati insieme ad altri 42 prigionieri sul Passo del Turchino come atto di rappresaglia contro l’attentato al cinema Odeon a Genova che era costato la vita a diversi ufficiali della Wehrmacht. Queste efferate dimostrazioni di forza da parte di tedeschi e fascisti anziché spegnere gli ardori dei ribelli, ottennero l’effetto opposto infondendo nuova linfa alla lotta di liberazione. La Brigata partigiana della Val Polcevera si adoperò per recuperare i corpi dei fratelli massacrati e per dare loro degna sepoltura.

benedicta-recupero
“Il recupero delle salme effettuato dai Partigiani della Val Polcevera e dai militi della Croce Verde di Pontedecimo”.

benedicta-dopo
“I ruderi della cascina della Benedicta”.

Così, prima ancora di combattere, morirono i ragazzi disarmati e inermi della Brigata di Odino, sotto gli occhi impotenti e inorriditi dei contadini della zona. Settandadue uomini caddero sul campo in seguito agli scontri e alla deflagrazione del Monastero. Settantacinque partigiani vennero fucilati sommariamente sul posto dal plotone dei granatieri di Bolzaneto agli ordini di un ufficiale tedesco e gettati, insieme agli altri 72, in una fossa comune. L’unico a salvarsi e ci racconta egli stesso come, fu proprio il comandante Ennio Odino che nel suo “CriK in  W. Valsesia, La Resistenza in provincia di Alessandria ricorda”: “Alle tane del lupo, tranne qualche morto fummo presi tutti: eravamo quasi duecento. Alla luce dei bengala ci accompagnarono, con le mani alla nuca e in fila indiana, alla Benedicta (…). Arrivati lì, fummo immediatamente rinchiusi tutti, feriti e non, nella cappelletta che era a sinistra, a piano terra per chi entrava nel cortile. Il mattino successivo (…) fummo chiamati a cinque per volta fuori dalla chiesetta nel cortile interno della cascina. (…) Io ricordo che ero il quinto del gruppo, dal 21 l 25, e sulla destra scendendo, venti metri prima della piccola cappella che esiste attualmente, notai cinque di Serravalle, tutti imbrattati di sangue. (…) Continuammo a scendere e arrivammo dov’è attualmente la cappelletta, di fronte alla quale, al di là della piccola valle, poco più in alto dov’è oggi una piccola croce, notai alcuni bersaglieri, otto o dieci, armati con dei moschetti. Dov’è la cappelletta ci fecero fermare e ci spararono addosso… Io dovevo sostenere un compagno che la sera prima, alle tane del lupo., era stato ferito ad un ginocchio. Questo fatto mi salvò (…) Caddi come altri a terra e il compagno che sorreggevo mi venne addosso e mi sporcò di sangue tutta la faccia. Rimasi lì immobile e sentii alcune raffiche di machine-pistole fischiarmi alle orecchie: erano i colpi di grazia che un tedesco delle SS dava a coloro che non erano morti e si lamentavano per il dolore delle ferite subite. Fu il momento più terribile della mia vita. (…) si sentì sparare dall’alto della collina: era il gruppo di Leo che pur sapendo che i colpi non sarebbero neppure arrivati fin lì, aveva cercato per lo meno di creare allarme fra il plotone di esecuzione composto di bersaglieri di stanza a Bolzaneto, e fra i tedeschi. Infatti coloro che li comandavano diedero ordine di ritirarsi all’interno della Benedicta e io, dopo qualche minuto, scivolai fuori dal gruppo di fucilati e salii attraverso il ruscello”. I prigionieri superstiti vennero condotti nel carcere di Marassi a Genova  e a Villa Rosa a Novi Ligure. Coloro i quali 351 ragazzi, renitenti alla leva, si erano presentati spontaneamente alle SS, in cambio di un condono di pena promesso ma non rispettato, vennero inviati dalla stazione piemontese nei lager in Germania, dove 140 di loro trovarono la morte.

Da allora il Sacrario in cui sono onorate le loro membra costituisce per i Partigiani della Liguria, come testimoniato dall’orgoglioso racconto del partigiano “Marzo”, il simbolo della barbarie fascista e della spietata ferocia tedesca.

bened
“Aprile del ’45  Genova è ormai  libera. I parenti accorrono sul luogo dell’eccidio”.

ruderi-abbazia
“Le rovine dell’Abbazia”.

Tratto da “La Repubblica di Torriglia” di G. B. Canepa: “Ricordo che la notizia si sparse rapidamente per i monti e le voci che correvano parevano esagerate, tanto era stata inaudita la ferocia con cui quei maledetti s’erano accaniti; ed erano gli stessi tedeschi che propagavano queste voci, le ingigantivano e ne menavano vanto, nell’intento di demoralizzarci e di sconsigliare chi pensava di unirsi a noi per combattere.

E invece ecco che un senso di orrore e di odio s’impadronì di tutti i partigiani, e si può dire che da quel giorno ebbe inizio la vera lotta in Liguria. Dalle montagne di Ventimiglia a quelle di Oneglia, di Albenga, di Savona; dalle nostre qui nell’entroterra di Genova, le formazioni partigiane si misero in moto, si rinforzarono, si collegarono, e le truppe tedesche e i fascisti non ebbero più tregua”.

Questo soprattutto è il grande contributo che quelli della Benedicta diedero al Movimento della Resistenza Ligure”.

benedicta-1
“L’ingresso al Sacrario”.

… per non dimenticare mai…

La collina dei poeti…

Spuntando da questa parte, quella orientale, il sole di Albaro investe poi della sua luce tutta la città; così, “la luce dell’alba”, la definivano gli antichi.

img_20161103_133808
S. Maria del Prato che si trova all’angolo fra le attuali Piazza Leopardi e Via Parini il cui nome trae origine, come ricordato da apposita lapide, dal fatto che un tempo si ergeva solitaria nel bel mezzo del prato adibito al pascolo pubblico.

Albaro non solo è il luogo dove sorge l’alba terrena ma anche quella religiosa poiché su questo dolce declivio i SS. Nazario e Celso approdarono nel I sec. e, per primi, introdussero il Cristianesimo. Nella scomparsa parrocchia di S. Nazaro celebrarono probabilmente la prima messa sul suolo italico.

Fin dall’epoca romana la collina su cui si erge è stata la principale fonte, insieme alla Valle del Bisagno, di ortaggi per la città e, come testimoniato dal toponimo della chiesa di S. Maria del Prato, anche un vasto campo adibito al pascolo comune. Nei secoli successivi si è trasformato nel sito prediletto delle nobili famiglie genovesi che vi hanno qui fatto costruire le loro principesche ville di campagna.

In una di queste, sita nell’attuale Via Albaro al civ. 1, Villa Saluzzo Mongiardino prese alloggio nel 1822, appena sbarcato con il suo stravagante seguito, Lord Byron. Il celebre poeta romantico  durante il suo soggiorno genovese elaborava i suoi scritti sorvegliato dalle tele di Van Dyck e del Veronese che arricchivano la già sfarzosa settecentesca dimora patrizia del Marchese Saluzzo. In quel periodo compose il suo “Don Juan”. Fra i suoi appunti annotava: “C’è qui un sospiro per quelli che mi amano, un sorriso per quelli che mi odiano, E, sotto qualunque cielo io vada, c’è qui un cuore pronto ad ogni destino”.

img_20161103_133448
La lapide affissa all’esterno di Villa Saluzzo in memoria del soggiorno genovese di Lord Byron.

La targa di Villa Negrotto che ricorda il soggiorno di Mary Shelley. Foto di Sistina Cantagalli.

Poco distante a Villa Negrotto nell’odierna Via S. Nazaro dimorava anche Mary Shelley compagna del suo fraterno amico Percy morto annegato al largo di Viareggio qualche tempo prima di intraprendere il viaggio dalla Toscana verso Genova. Mentre Byron componeva il suo “Don Giovanni” l’autrice di “Frankenstein” qui si dedicò alla biografia del marito scomparso e scrisse un breve racconto in cui decantava le luci e i colori di “una splendida Genova” vista “dalla collina di Albaro, solitaria e battuta dal vento”.

villa-bagnarello
Lapide esposta all’esterno di Villa Bagnarello a ricordo del soggiorno di Dickens.

Come ricordato dalla targa affissa sulla sua dimora genovese Lord Byron partì da Genova alla volta di  Missolungi in Grecia, con l’intento di prestare soccorso al  popolo greco insorto per la libertà contro l’impero ottomano. Il poeta romantico anglosassone, causa una febbre malarica, trovò la morte nella terra degli eroi classici, che tanto avevano influenzato il suo “umano sentire”, dell’antica Ellade.

genova-villa_saluzzo_bombrini-dscf9233
La cinquecentesca Villa Saluzzo Bombrini meglio nota come il Paradiso.

Circa 20 anni dopo nel 1844 anche Dickens volle ripercorrere le orme dell’illustre predecessore decidendo di visitare i luoghi di Byron e di dimorare nella zona di Albaro. L’autore di “Oliver Twist” nel quartiere scelse Villa Bagnarello, definendola “la prigione rosa “. Dickens venne diverse volte a Genova e cambiò spesso domicilio al punto di farsi un quadro ben preciso della Superba: “Genova è tutta un contrasto; è la città più sporca e più pittoresca, più volgare e magnifica, repulsiva e più deliziosa che esista.”

Oltre un secolo dopo, in un’altra villa sempre dei Saluzzo, questa volta però quella cinquecentesca  detta “Il Paradiso”, saranno gli affreschi di Lazzaro Tavarone, Bernardo Castello e Giovanni Ansaldo a ergersi testimoni e fonte d’ispirazione per Fabrizio De André.  Dalle creuze agresti e bucoliche della Vecchia Albaro a quelle “cariche di sale gonfie di odori” della città vecchia.

“Bacan d’a corda marsa d’aegua e de sa che a ne liga e a ne porta nte ‘na creuza de ma”… cantava l’inarrivabile Fabrizio!

In foto di copertina il quadro di Alessandro Magnasco “Giardino di Albaro”.

S. Salvatore… dove si riflette l’anima…

Nel cuore medievale di Genova, in Piazza Sarzano, poco distante da S. Agostino e da S. Silvestro, la chiesa del Santissimo Salvatore ha saputo ritagliarsi il suo spazio nella storia della città. Fondata nel 1141 dai canonici della Congregazione di San Rufo presso Camogli, si stabilì che essendone alle dirette dipendenze, a titolo simbolico, ogni natale tributasse un denaro ed una candela alla cattedrale di S. Lorenzo. Si affaccia sulla piazza, l’unica  a quel tempo così spaziosa, dove si tenevano i tornei, il mercato e le adunanze. Quando nel 1311 Genova era lacerata da lotte e divisioni intestine, S. Salvatore fu attonito testimone della prima dedizione della città, in signoria, ad un principe straniero, l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo. Nel 1640 assistette sgomenta all’omicidio del giovane emergente pittore Pellegro Piola, il cui assassinio ebbe grande risalto nelle cronache cittadine del tempo.

Nel 1653 grazie al corposo lascito di una facoltosa famiglia del quartiere la chiesa venne ricostruita in forme barocche. Nel 1684, in seguito al bombardamento francese del re Sole subì il crollo del soffitto e fu oggetto di nuovi interventi. Ulteriori modifiche vennero apportate poi, anche nel tardo ‘700. Nel 1809 accorpò il titolo della vicina chiesa della comunità lucchese di S. Croce mutando il nome in chiesa di S. Salvatore e S. Croce. Qui furono battezzati il pittore Gioacchino Assereto e il musicista Nicolò Paganini il cui certificato di nascita è custodito presso la parrocchia di San Donato.

sarzano
“S. Salvatore e Sarzano nel 1942 dopo il bombardamento aereo”

Nel 1942 durante la Seconda Guerra Mondiale venne quasi completamente distrutta, la sua storia e le sue opere d’arte sotterrate sotto le macerie fino a quando, negli anni ’80 e ’90, è stata acquistata dalla vicina università che, una volta sconsacrata, ne ha ricavato l’aula magna di architettura, una struttura in grado di ospitare 340 persone per conferenze, concerti ed eventi.

 Nel frattempo il titolo parrocchiale è stato ereditato dal vicino oratorio di S. Antonio della Marina.

received_1588191377865025
“Interni di S. Salvatore attuale imponente aula magna della Facoltà di Architettura”. Foto di Leti Gagge.

S. Salvatore è vero, non ha opere d’arte, arredi o quadrerie di particolare rilievo, né ne ha mai avute, ma con i suoi colori rosso mattone e giallo ocra, che si accendono o si smorzano a seconda dell’angolo da cui la si osserva, là “nei quartieri dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi”… funge da specchio dell’anima… l’anima di Sarzano.