Il Castello Türke…

Si staglia imperioso sul Capo di S. Chiara a dominare la spiaggia di Sturla e il Borgo di Boccadasse. Il castello Türke venne eretto nel 1903 dall’architetto fiorentino Gino Coppedè già progettista, fra le altre, di opere assai apprezzate quali il castello Mackenzie prima e quello Bruzzo poi.

Il successo riscontrato per questo suo fiabesco immaginare gli valse numerose committenze da parte della più ricca borghesia cittadina. Sua, ad esempio, anche la firma sulla villa che porta il suo nome in Via Rossetti nel quartiere di Priaruggia e, soprattutto, sulla scenografica e faraonica realizzazione dell’Expo d’Igiene Marina e Colonie del 1914 in occasione della quale, tra Piazza della Vittoria e Piazza Verdi, ideò una vera e propria città nella città.

“Il Castello, visto dal mare, domina il Capo di S. Chiara”.

Per quanto concerne il castello di Sturla la forma adottata è un miscuglio di linguaggi, detto “floreale” in cui si armonizzano diversi stili; dal borghese al moresco, dall’assiro babilonese al medievale, con citazioni del Palazzo della Signoria della natia Firenze, fino al gotico e al neoclassico.

Il Castello Türke, o “del Turco” come comunemente identificato dai residenti del luogo, fa ormai parte di uno degli scorci paesaggistici più suggestivi della città.

“O caroggio do fi u nu va ciù dritu a San Loenso”…

Carrubeo Fili questo era il suo antico nome. Il toponimo trae origine dalla zona dove fino al XIV sec. si lavorava il lino. Nel 1400 vi si stabilirono anche le botteghe dei copisti, gli artigiani che riproducevano i manoscritti su pergamena decorandoli con preziose miniature.

Per secoli, prima del riassetto urbanistico iniziato nel 1835, il vicolo si dipanava in salita, districandosi in un dedalo intricato di caruggi, fino a pochi metri dalla porta di destra della cattedrale. La sistemazione del quartiere si era resa necessaria sia per fornire il duomo di una piazza degna di tal nome, che per dare adeguato sfogo alle merci che transitavano in Piazza Caricamento.

Ebbe così origine, in quell’epoca, il celebre detto “O caroggio do fi u nu va ciù dritu a San Loenso”, ovvero il caruggio del filo non va più dritto in San Lorenzo, ad indicare che a volte, purtroppo, le cose vanno storte e non più dritte come ai bei tempi.

“Edicola di Vico del Filo all’incrocio con Vico Cinque Lampadi”.

Dell’antico percorso oggi rimane traccia fino al punto in cui, a pochi passi da San Lorenzo, il caruggio gira a sinistra spegnendosi nel loggiato di Palazzo Cicala.

“Le Oche di Albert”…

Dietro la chiesa delle Vigne, nel cuore della città vecchia, si trova uno dei tanti angoli nascosti e poco noti ai genovesi stessi. Si tratta di Piazzetta delle Oche, uno spiazzo triangolare privato appartenuto nei secoli passati alla nobile famiglia dei Vivaldi, la stessa che ha dato i natali agli intraprendenti navigatori ispiratori del “folle volo” dantesco.

“La caratteristica forma triangolare della Piazzetta”.

Veniva utilizzata come aia, popolata da muli e altri animali da cortile che vi razzolavano in libertà. Ma, a farla da padrone, come in Campidoglio, era un gruppo di starnazzanti oche. Di qui il toponimo testimoniato da un murale che le raffigura.

In questo luogo nel lontano 1895 dimorò per qualche mese un ragazzotto di nome Albert Einstein. A sedici anni, il futuro Premio Nobel della Fisica giunse a Genova, dopo aver attraversato a piedi la Val Trebbia.

Era partito da Pavia dove, in seguito ad un’accesa discussione, aveva abbandonato la casa dei genitori.

“Il Portone del Palazzo che ha ospitato il fisico tedesco”.

Einstein era stato infatti, lui futuro genio della scienza, appena bocciato all’esame di ammissione al prestigioso Politecnico di Zurigo. Così, deluso, aveva deciso, preso il suo inseparabile violino, di recarsi nella città di Paganini, ospite di Jacob Koch, lo zio materno mercante di grano all’ingrosso che nella piazzetta aveva ufficio e dimora.

Rimangono traccia nei suoi appunti genovesi dell’ammirazione per la Cattedrale di San Lorenzo, dello splendore di Strada Nuova e soprattutto delle golose prelibatezze della Pasticceria Romanengo di Campetto.

Ed io me lo immagino il giovane Albert ingurgitare manciate di frutta candita ed ogni genere di leccornie da Romanengo, mentre Verdi, il genio della musica, è seduto lì vicino da Klainguti, a pochi passi, intento a gustare i suoi prediletti “Falstaff”.

A Genova ebbe modo di conoscere Ernestina Marangoni con la quale instaurò, mantenendo un fitto rapporto epistolare, un duraturo e sincero rapporto di amicizia.

In una di queste lettere, molti anni dopo, il grande scienziato ormai all’apice del successo scriveva in un incerto italiano: “I mesi felici del mio soggiorno in Italia sono le più belle ricordanze”.

“La lapide affissa in ricordo del soggiorno genovese di Einstein”.

A ricordo dell’illustre ospite, a cura dei condomini del palazzo, è stata di recente affissa una lapide che ne testimonia il gradito soggiorno.

“Non ho alcun talento particolare. Sono solo appassionato e curioso” disse il fisico e se “La logica vi porterà da A a B. – aggiunse – “L’immaginazione vi porterà dappertutto”…

Soprattutto a Genova…

L’Adorazione segreta …

In Vico dei Carmagnola, dal nome dell’illustre famiglia piemontese trasferitasi nella zona attorno alla metà del ‘400, si trova il Palazzo di Giovanni Garibaldi, casato originario di Né nell’entroterra di Lavagna.

Una dimora dal fascino antico e decadente la cui bellezza s’intuisce già dal portale in pietra nera di Promontorio che ne nobilita l’ingresso. Decorato con fregi di teste imperiali, volatili, elmi e coppe onuste di fiori. Sui sopra capitelli due delfini legati a una coppa pisside.

“Il Portale in Pietra nera di Promontorio di Palazzo G. Garibaldi”. Foto di Milena Esse.
“Primo piano del Portale”. Foto di Alessandro Donato.

Ma la vera meraviglia si trova al primo piano dove si dipana lo scalone monumentale sorretto da colonne doriche. Qui, a fianco dell’immancabile medaglione tondo in pietra nera con l’effigie di S. Giorgio in lotta con il drago, s’incontra un’Adorazione dei Magi del XV sec.

“Lo scenografico scalone”. Foto di Alessandro Donato.
“In primo piano le colonne doriche. Sullo sfondo s’intravede il sovrapporta dell’Adorazione”. Foto di Alessandro Donato.

La dinamica della scena richiama fortemente quella della più celebre Adorazione del Presepe degli Orefici. I tratti e gli stilemi dell’artista, essendo il periodo coevo, sono molto simili, ma non sono gli stessi. Lo scultore, in questo caso, non riesce ad eguagliare la perizia, manifestata in Via Orefici, da Elia e Giovani Gagini. La pietra utilizzata è di minor pregio, le figure non sono così morbide e mancano della cura del  dettaglio. Ciò nonostante il risultato d’insieme adempie alla sua scenografica funzione.

Un quattrocentesco bassorilievo che ovunque farebbe bella mostra di sé in qualsiasi museo, a Genova giace dimenticato in disparte nel ballatoio di un palazzo come tanti.

 

“A me le torte di Zena”…

Certo le scuole napoletane e siciliana di chiara impronta araba, per non parlare di quella asburgica mitteleuropea (austriaca e svizzera), sono tra le più celebrate ed apprezzate. Ma Genova non rimane indietro anche la Superba infatti può vantare una tradizione pasticcera di tutto rispetto segnalandosi per alcune rinomate ed esclusive preparazioni.

“Pan di Spagna”.

Ad esempio, all’incirca a metà del ‘700, il giovane pasticcere Giovanni Battista Cabona, al seguito dell’ambasciatore genovese a Madrid il marchese Domenico Pallavicino, inventò per un ricevimento di rappresentanza una particolare e assai leggera tipo di base per torte. L’innovativa pasta viene lavorata a caldo senza lievitazione. Realizzata per la prima volta quindi in Spagna ne prese il nome.

Nel 1800 Chiboust, il celebre pasticcere parigino di Rue Saint Honorè, per omaggiare l’eroica resistenza del connazionale Massena impegnato nella strenua difesa di Genova assediata dagli austriaci, ne elaborò una variante, ottenuta a freddo battezzata la “Genoise”.

“Bottega di Preti aperta nel 1851 in Piazza Portello”.

Su questa base a metà del secolo successivo, con l’aggiunta di creme e farciture liquorose, nel laboratorio della Pasticceria Preti sarebbe nata la Sacripantina, brevettata poi nel 1875.

“La Sacripantina”.

Se il Pan di Spagna divenne la base imprescindibile di numerose torte, grande successo ebbe la Sacripantina sulle cui scia, poco dopo, nacque su creazione di Klainguti, la torta Zena. Pensata dai fratelli svizzeri per omaggiare la città che li aveva ospitati, adottati e resi famosi. Insieme ai Falstaff, le brioches preferite di Verdi e alla torta Engandina (così chiamata in onore della loro valle di provenienza), preparata con farina di mandorle e crema di latte, divenne la specialità più ricercata della casa.

Dal 1965 la ricetta viene portata avanti con passione dai successori:

Di forma quadrata anch’essa parte da una base di Pan di Spagna con zabaione (leggermente alcolico) e pasta di mandorle.

“La Pasticceria Klainguti”.

Che dire poi dell’arte confettiera in cui i Romanengo eccellevano già dal 1780: frutta candita, confetteria varia, gocce di rosolio, confetture, marmellate sciroppi alle viole e di rose. Queste sono solo alcune delle preparazioni più apprezzate con le quali si deliziavano le principali corti europee.

“La Pasticceria Romanengo”. Foto di Leti Gagge.

Tornando alle torte come non citare quella, a base di pasta di mandorle, tanto cara a Giuseppe Mazzini. E’ l’apostolo della libertà stesso a raccontarcelo trascrivendone ricetta al tempo in cui, negli anni ’30 dell’ottocento, era in esilio in Svizzera in una lettera indirizzata alla madre Maria Drago:

“La Torta di Mazzini”.

“Prima di dimenticarmi, voglio mantenere la mia promessa. Eccovi la ricetta che vorrei faceste e provaste, perché a me piace assai, traduco alla meglio, perché di cose di cucina non m’intendo, ciò che mi dice una delle ragazze in cattivo francese: Pelate e pestate fine fine tre once di mandorle, tre once di zucchero fregato prima ad un limone, pestato finissimo. Prendete il succo di un limone, poi due gialli d’uovo, mescolate tutto questo e muovete, sbattete il tutto per alcuni minuti, poi sbattete i due bianchi di uovo quanto potete: “en neige”, dice essa, come la neve, cacciate anche questi nel gran miscuglio, tornate a muovere. Ungete una “tourtiere”, cioè un testo da torte, con butirro fresco, coprite il fondo della tourtiere con pasta sfogliata, ponete il miscuglio nel testo, su questo strato di pasta sfogliata, spargete sopra dello zucchero fino e fate cuocere il tutto al forno”.

“L’antica Liquoreria Marescotti incastonata nella duecentesca loggia”.
“L’antica Pasticceria Cavo”.

A riproporre la gustosa e risorgimentale ricetta è dal 1906 la Liquoreria Marescotti, incastonata nella duecentesca Loggia dei Gattilusio in Via del Fossatello. Fondata in Genova nel 1780, con il nome di “Cioccolateria Cassottana” e rilevata dalla famiglia Cavo nel 2008, inventrice a fine ‘800 degli Amaretti di Voltaggio.

In cucina funziona come nelle più belle opere d’arte: non si sa niente di un piatto fintanto che si ignora l’intenzione che l’ha fatto nascere
(Daniel Pennac).

Il Presepe della Maddalena…

Nella Chiesa di Santa Maria della Maddalena vi è un altro presepe marmoreo simile a quello, più noto, della Chiesa del Gesù. Meno ricco di dettagli e molto più essenziale non è però da meno.

La mano tuttavia, nonostante le figure nitide e al con tempo morbide dei personaggi, non è la stessa.

Infatti anche se in molte pubblicazioni viene attribuita a quella precisa e sapiente di Tommaso Orsolino, l’autore risulta ignoto.

Nel Paliotto della mensa lo scultore immortala S. Paola mentre s’inginocchia in adorazione del bimbo.

I personaggi scolpiti con mirabile maestria, oltre alla santa i putti e gli angioletti ai lati, raffigurano una modesta Maria dall’umile, quasi imbarazzato sguardo e un Giuseppe invece, colmo d’orgoglio e partecipazione.

“Il Monte della Morte”…

Alle spalle di Rapallo si staglia il Monte Letho, Monte Allegro poi, per contrazione, Montallegro. Si eleva a 612 metri sul livello del mare dominato dall’omonimo, al quale deve il nome, santuario.

Dagli atti medievali si evince infatti, non comparendo la nomenclatura “Monte Laethus” né “Mons Alegrus”, che l’origine più plausibile  dell’etimo sarebbe riconducibile proprio all’apparizione della Madonna al Chichizola.

Il tempio venne eretto per celebrare la visione della Vergine al devoto contadino avvenuta il 20 luglio 1557 su quello che, nelle antiche mappe, era noto come il Monte Letho, il “Monte della Morte” così chiamato per via delle letali imboscate che vi tendevano i briganti della zona.

Agli incauti viaggiatori di fronte alla scelta “o la borsa o la vita”, non restava altro che, per salvare la pelle, farsi depredare.

Ma molti secoli prima, al tempo in cui Rapallo, ostile a Roma, si chiamava Tigullia o Tigultia ed era la roccaforte della resistenza della tribù ligure dei Tigulli, fu teatro di un epico scontro.

Si narra che, proprio su questo monte vi fu una sanguinosa imboscata contro i romani, avvenuta nel 574 anno di Roma, in cui perse la vita addirittura il Console di Roma Quinto Petilio. A partire da quell’episodio il monte Letho tradotto in “Laetus”, (lieto, allegro) divenne “Letus “ (morte), il Monte della Morte.

A raccontarlo è lo storico Tito Livio che annota come il console Petilio pose il suo accampamento di fronte al monte Balista ed alla sommità del monte Leto nel punto in cui, grazie ad una dorsale, si congiungevano l’uno con l’altro. Dove la storia perde le tracce, il mito si sa, intesse la sua trama.

Qui, secondo la leggenda infatti, avrebbe avuto luogo lo scontro dove persero la vita 500 valorosi guerrieri liguri e circa 2500 soldati romani, compreso, appunto, lo stesso console Petilio.

La battaglia si sarebbe svolta nel 574 ab urbe condita che corrisponde al 179 a.C. dell’era cristiana.

Se sulla veridicità dell’attacco non vi sono dubbi, non tutti gli storici concordano sulla località; secondo alcuni studiosi la scena della carneficina si sarebbe svolta in realtà sull’Appennino, al confine tra Liguria e Toscana.

Monte Lieto, Allegro per gli antichi, poi Leto, della morte dal tempo dei Romani fino ai briganti medievali, di nuovo Allegro, anzi Montallegro per i fedeli cristiani.

“L’oro a Genova viene sepolto”…

“Monete d’oro”.

A testimonianza del prestigio e delle ricchezze accumulate dalla Superba in seguito alla scoperta dell’America e, soprattutto, in virtù dell’alleanza stipulata con i reali di Spagna, in tutte le corti si diffuse questo assai pragmatico modo di dire:

“ (l’oro) nasce onorato nelle Indie (occidentali)
da dove la gente lo accompagna
viene a morir in Spagna
ed è seppellito a Genova.

Un’altra versione più sintetica rimanda allo stesso concetto:

“(l’oro) nasce in America, cresce a Valencia, viene sepolto a Genova”.

“Un’ immagine tardo cinquecentesca di Siviglia adagiata sul Guadalquivir”.

I Doria, gli Spinola e i Centurione furono fra i principali sostenitori finanziari dell’impero di Carlo V e delle sue relative campagne militari.

Nel “Secolo dei Genovesi” costoro per  fama, prestigio e potenza  si posero sullo stesso influente piano dei grandi banchieri sassoni, ebrei, nordici e tedeschi come i ricchissimi Fugger e Welser, tessendo le fila dell’economia mondiale del loro tempo.

“La Torre invisibile”…

La famiglia dei Piccamiglio originaria della Germania, all’incirca dall’anno 1000, si trasferì sui lidi della nostra città. I loro membri fecero fortuna con il commercio e la navigazione e ricoprirono svariati ruoli ed incarichi di prestigio. Ad esempio nel 1344 Corrado assunse il titolo di “almirante” per il re di Cipro. Nel 1414 formavano uno dei 74 alberghi, l’istituto che sarà poi rinnovato e razionalizzato (ridotti a 24) nel 1528 da Andrea Doria. Da quel momento in poi, ascritti, entrarono nell’orbita dei Calvi. Si estinsero poi nel corso dei secoli ma del casato non se ne è perso il ricordo grazie alla torre superstite che si trova in Via del Campo lato mare, impostata sull’arcata che introduce in Vico San Marcellino.

“La Torre dei Piccamiglio ancora oggi svetta sui tetti della Ripa maris”. Foto di Leti Gagge.

Alta circa 38 metri suddivisi in otto piani, di cui i primi cinque in pietra di Promontorio, in laterizio gli ultimi tre, fu costruita a difesa della sottostante chiesa di San Marcellino e delle numerose proprietà famigliari nel quartiere.

In realtà quasi da subito la torre più che militare, ebbe funzione residenziale. Secondo la storiografia ufficiale venne edificata nel 1437 dall’architetto Giovanni Zerbi. Studi più recenti, basati sull’analisi “mensiocronologica” dei laterizi, hanno però evidenziato come la datazione più probabile sia duecentesca, compresa fra il 1260 e il 1280 e, quindi nel ‘400, solo ristrutturata.

“Primo piano della torre”. Foto di Leti Gagge.
“Sempre la torre da un altro punto di vista”. Foto di Leti Gagge.

Oggi risulta inglobata nei palazzi adiacenti e costituisce tipico esempio di quelle meraviglie nascoste che a Genova si possono ammirare solo camminando con il naso rivolto all’insù.

Osservandola da Vico San Marcellino si possono comunque notare l’arco a sesto acuto in pietra, i fregi marmorei del sottotetto, le finestrelle con cornice a sesto tondo in laterizio della torre e le tre relative scenografiche merlature che includono il fastigio.

“Edicola di Madonna con il bambino in Vico San Marcellino”.

Incastonata sotto l’arco si può infine ammirare una Madonna col Bambino. Un bassorilievo in pietra nera di Promontorio per cui lo scultore ha modellato un tempietto classico con timpano triangolare e fregi.

La torre, proprio come Genova, non si mostra a tutti. La trovi solo se la cerchi.

“Asini ed enigmi”…

Parecchi sono i misteri e le curiosità legate alla cattedrale di San Lorenzo; dai sarcofaghi di reimpiego e dalla scacchiera incastonata sul portale di San Giovanni, al cagnolino scolpito accanto al portone destro; da altre tombe murate sulla torre campanaria a quella pensile, sul lato di San Gottardo, di Antonio Grimaldi;  dai leoni del Rubatto alla statua dell’Arrotino.

“Portale di San Giovanni”.

Numerose poi sono le lapidi, le simbologie e gli animali di diverse fogge, reali e di fantasia, rappresentati: aquile, cani, cavalli, leoni, pantere, tori, uccelli vari ed esotici, colombe, elefanti, serpenti, cervi, capre, conigli, lepri, cinghiali, falconi, pavoni, un vero e proprio zoo di marmo e ancora creature fantastiche sia zoomorfe che antropomorfe, buoi  e leoni alati, grifoni, draghi, sirene, arpie, chimere, centauri, leviatani, asini.

Quest’ultimo animale è scolpito sul portale di san Gottardo, assistito da un cane, mentre suona l’arpa, immagine allegorica dei giullari al servizio dei potenti e dei ruffiani di corte.

“Il braccio con la croce”.

Curiosa poi, lì vicino a pochi passi, la tavella marmorea che ritrae un braccio teso e una piccola croce a significare come la cattedrale appartenesse, fatto assai singolare e inusuale, al libero Comune di Genova e non alla Curia.

“La Triplice cinta”. Foto di Leti Gagge.
“Tomba in arcosolio accanto al portale di S. Gottardo”.
“Il portale di San Gottardo”.

Infine il triplice quadrato, detto “triplice cinta” posto in tre posizioni diverse (il primo sullo scalone principale, il secondo vicino al leone sinistro scolpito dal Rubatto, il terzo su uno dei gradini che conducono, nell’omonimo portale, al battistero di San Giovanni) che richiama il gioco del “filotto”. Per taluni storici sarebbero segni legati alla simbologia templare poiché rappresenterebbero l’orientamento dell’uomo nello spazio e l’opposizione della terra e del cielo, alla stessa maniera di un altro fondamentale simbolo esoterico, il “centro sacro”. Certo la presenza templare in Cattedrale è ben attestata nei secoli. A tal proposito basti ricordare come, nel  Medioevo, dodici cavalieri sul modello di quelli di Re Artù e dei discepoli di Cristo, erano preposti alla custodia del tesoro e del Sacro Catino.

“La tomba pensile di Antonio Grimaldi che fino al 1895 si trovava nel convento di San Giovanni di Prè”.

Che si tratti di un innocente passatempo o di un ben più profondo significato allegorico legato ai Templari, la questione rimane aperta.

Nel frattempo lo zoo a cielo aperto da secoli inscena il suo fantasioso spettacolo, quasi  rappresentatasse la celebre filastrocca per bambini, “L’Arca di Noè” il cui ritornello recitava:

Ci son due coccodrilli
ed un orango tango,
due piccoli serpenti
e un’aquila reale,
il gatto, il topo, l’elefante:
non manca più nessuno;
solo non si vedono i due liocorni.
…. e intanto l’asino continua a suonare con la sua arpa, tutta un’altra musica.